Nella storia delle parole etica e senso ci vincolano agli altri
MONICA LANFREDINI & GIUSEPPE PERRELLA
NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 28 marzo 2020.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE]
Si
attribuisce a Martin Heidegger la tradizione filosofica di interrogare l’etimo
di una parola per aprire una finestra diacronica di senso sulle idee che l’hanno
generata per esigenza comunicativa, ma di certo negli ultimi decenni sono stati
numerosi gli autori, anche in ambito non filosofico, che hanno attinto a questa
utile risorsa di conoscenza.
È
vero che, in un’epoca non tanto lontana, la moda intellettuale di fare ricorso
alle etimologie come fonte di argomentazione ha prodotto abusi ed esercizi
risibili di etimologisti improvvisati, di ambito psicologico e psichiatrico, che
cercavano la natura della cosa studiata in prossimità semantiche e assonanze
verbo-acustiche con la sua denominazione convenzionale. Una variante dell’errore
nominalistico in filosofia: come se, nel tentativo di conoscere il sole, invece
di interrogare la fisica per sapere che nella sua qualità di stella ha la natura
di un reattore termonucleare, si cercasse la sua essenza nell’origine linguistica
della struttura verbale “s-o-l-e”.
Ma
è pur vero che quell’epoca è passata, e con la sua fine si spera che sia venuta
a cadere la diffidenza pregiudiziale indotta da quei maldestri dilettanti verso
qualsiasi impiego dell’etimo, anche corretto e appropriato, nello sviluppo di
una riflessione concettuale.
Nelle
epoche antiche, quando non esistevano i vocabolari, la ricerca dell’origine
linguistica di un termine era di fatto una pratica pressoché obbligata in molti
casi. Ad esempio, ogni qualvolta un letterato o un filosofo affrontava l’interpretazione
di un’opera scritta in un idioma diverso dal proprio e trovava una parola sconosciuta
o ambigua, aveva due sole vie per tentare di comprenderla: reperirla nel
maggior numero di scritti possibili, anche di autori differenti, confrontando i
probabili significati ricavati dal contesto, oppure procurarsi gli studi sulla
genesi di quella voce, ossia la sua etimologia.
Non
possedendo le regole e gli strumenti della ricerca linguistica moderna, spesso
le ricostruzioni etimologiche degli antichi erano fallaci. Nel corso della
storia sono state prodotte innumerevoli etimologie false o erronee: gli esempi
più noti si ritrovano in Isidoro Ispanico[1]. E ancora accade che incauti e
superficiali autori contemporanei riportino come interpretazioni autentiche le
sviste o le invenzioni che appaiono in tanti testi e documenti antichi[2]. Per proteggerci da questo
rischio, oltre ad aver studiato i rudimenti della linguistica diacronica acquisendo
paradigmi conoscitivi di base, abbiamo adottato la pratica del riferimento alle
opere di autorità riconosciute in questo campo.
Il
nostro interesse per questo metodo è testimoniato dal suo impiego frequente nel
lavoro per il Seminario Permanente sull’Arte del Vivere.
A
partire dal valore semantico di un termine, le parentele lessicali e la forma
delle loro derivazioni spesso rivela un ambito concettuale di fondo che ci
riporta a grandi matrici di esperienza, dalle quali si sono evolute, differenziate
e specializzate, le parole del nostro convenzionale, automatico e spesso inconsapevole
uso quotidiano. Parole che, incluse nelle trame di senso del presente,
costituiscono come un muro davanti alla finestra aperta dall’etimo sulla storia
della concettualizzazione comunicativa del vissuto collettivo umano. Aprire una
breccia in questo muro, potrebbe aiutarci ad accedere a illuminanti spazi di comprensione
e conoscenza.
In
varie occasioni abbiamo riflettuto sullo spettro semantico della parola greca éthos, che va dall’indicazione di un luogo materiale
o metaforico di dimora abituale, sede, soggiorno, al
designare la consuetudine, il costume e, per estensione o derivazione,
la morale individuale e sociale; e la riflessione ci ha consentito di
cogliere in quel termine il nesso tra etica e abitudine rilevato per primo da
Aristotele. Ora, seguendo la ricostruzione etimologica del celebre linguista francese
Émile Benveniste, che fa risalire il termine greco éthos alla radice indoeuropea ⁎swe, specializzata dall’affisso -dh
nella forma ⁎swe-dh, proviamo
ad esplorare le tracce lasciate nelle lingue dalle traiettorie di senso che si
irradiano dal concetto che ha prodotto il radicale[3].
Un
nodo di senso illuminante individuato da Benveniste collega
l’individuo ad una rete sociale, attraverso la radice ⁎swe. Questo radicale è molto importante nel lessico
indoeuropeo, per le famiglie di termini che ha generato nelle lingue derivate,
a partire dall’aggettivo che indica l’appartenenza propria: sanscrito sva-, latino suus,
greco ⁎swós[4]. In slavo, baltico e germanico dalla
radice ⁎swe sono formati i
vocaboli che designano vari tipi di parenti acquisiti; in russo si impiega il
termine svat per indicare tanto il “pretendente
alla mano” di una ragazza, quanto una persona diventata parente per effetto di
un matrimonio, e particolarmente per indicare la relazione reciproca esistente
tra consuoceri. Così svojak, derivato da svoj, “proprio”, vuol dire cognato; svest è la sorella della moglie; in lituano sváinis è il fratello della moglie o il marito della
sorella[5].
Dunque,
i termini originati dalla stessa radice della parola etica designano vincoli
socialmente riconosciuti, ma diversi da quelli stabiliti dal rapporto di
consanguineità e discendenza; Salvatore Natoli, in proposito, così si esprime: “…relazioni
indirette che per quanto familiari sono già di clan, relazioni allargate che
rappresentano ampiamente il legame sociale”[6].
Nella
mente di coloro che hanno gettato le antiche fondamenta dei valori semantici
delle parole contemporanee sembra ci fosse un rapporto implicito fra un
soggetto e il suo luogo abituale di dimora e di relazioni umane, all’interno
del quale si compie o si configura l’identità sociale.
Questa
configurazione dell’individuale nell’éthos
collettivo sembra sia stata rilevata come una condizione quasi naturale, entrata
nel linguaggio e comunicata così come era spontaneamente percepita e pensata, e
non come un artificio imposto alla collettività secondo un piano deliberato per
il governo della realtà umana, ossia una legge, un nόmos.
Proprio
il rapporto fra éthos e nόmos,
cruciale per la distinzione fra antropologia greca e giudaico-cristiana, incide
nelle parole valori di senso che ci consentono di comprendere necessità, virtù
e contraddizioni della relazione del singolo col contesto sociale nella realtà
materiale, gravata dal pesante fardello delle costruzioni simboliche, interpretata
alla luce di ideali, desideri, progetti e sogni della dimensione immaginaria,
costretta nei limiti rigidi di segni invalicabili perché interiorizzati come
una seconda natura.
Prima
di seguire la traccia data dallo studio di un documento di straordinario
interesse per la comprensione di uno snodo cruciale nell’integrazione delle
concezioni greca e giudaico-cristiana dei rapporti fra singolo e collettività,
val la pena soffermarci su una differenza essenziale fra le due dimensioni di
pensiero, cominciando da quella greca.
Il
mondo fisico emerso dal caos primordiale, ossia la phusis
o physis, nome greco tradotto spesso col vocabolo
natura e originato dalla radice sanscrita bhu-,
bhavati (dalla quale non per caso deriva il fui
latino, perfetto di esse) rappresenta il naturale esistente, all’origine
dell’uomo stesso. Al naturale della phusis,
si contrappone l’artificiale del nόmos,
la legge concepita dall’uomo ed espressione del suo arbitrio.
Il
mondo della cultura ebraica si caratterizza per l’irrompere nella sua storia, attraverso
la rivelazione, dell’Ente Creatore ed Essere per eccellenza (“Io sono colui che
è/sono”), rappresentato dal tetragramma (translitterato YHWH) e identificato
dal popolo con la possibilità assoluta di sperare. La concezione del Dio
Creatore, nel quale si colloca l’essenza dell’essere e l’origine della legge,
rovescia la prospettiva greca: il nomos appartiene a Dio ed è pertanto
un principio assoluto che si identifica con la sua volontà, dalla quale proviene
l’artificio divino della creazione.
Il
documento più sopra annunciato è la cosiddetta Lettera di Aristea[7], un saggio redatto in greco per il
composito popolo ebraico di Alessandria d’Egitto, città ellenizzata. Gli studi
esegetici, filologici e critici hanno rivelato il vero scopo dello scritto,
consistente nel tentativo di colmare l’abisso culturale che separava il mondo
ebraico da quello pagano, dietro l’apparenza di un testo di commento
interpretativo di contenuti del Pentateuco e di altri libri della tradizione
giudaica. Ad esempio, caratterizzando le virtù del sovrano con i termini greci enkráteia, euergesía, eusébeia e alypía, si
introducono intere dimensioni concettuali della cultura greca, che non avevano
specifici equivalenti in quella giudaica.
Nella
Lettera, un sapiente uso nei principali significati di trópos e basileía
conduce il lettore a quegli orizzonti di senso che hanno generato le parole,
distogliendolo dalla tentazione di ridurle al valore semantico di due sinonimi
ebraici, per farlo entrare nel pieno delle questioni relative alle tradizioni
elleniche del rapporto etico del singolo con la collettività, attraverso il
ruolo del re e delle leggi. È illuminante il passo in cui il re chiede a un
saggio durante un banchetto quale sia il più essenziale trópos
(atteggiamento, comportamento) della basileía
(regno), e riceve questa risposta: “Obbedisci alle leggi che il re emana, ma
ricorda che la legge più valida è il comportamento (trópos)
del re”[8].
Una
prospettiva inusitata per l’Ebreo che viveva la sottomissione alla divina Legge
mosaica quale imperativo che accomunava il re al popolo: qui si propone la
concezione della priorità dell’éthos del sovrano
sulla legge, che aveva radici in una tradizione risalente a Platone e formulata
in rigorosi termini teorici: βασιλιχὸς
ἀνήρ (basilikòs
anér)[9], ossia colui che, in possesso
della saggezza filosofica, si considerava re e modello etico, anche se non chiamato
a governare. Si propone, dunque, il modello dell’uomo che incarna la legge, secondo
un termine, nόmos, che non ha solo una
differente calibratura o uno spettro semantico non del tutto coincidente con
quello dell’equivalente vocabolo ebraico, ma ha proprio una genesi concettuale del
tutto differente.
Il
saggio, il re saggio e il re di saggezza, ciascuno inteso come
nόmos émpsychos
nella cultura greca, costituiscono una realtà lontanissima dalla concezione
spirituale ebraica.
I
lettori alessandrini di fede ebraica avevano quale prototipo della figura del
sovrano il re del Deuteronomio, che scrive per sé una copia della Legge «per
imparare a temere Yahweh, suo Dio, e a osservare le parole e le prescrizioni
per praticarle» (Deut., XVII, 19). Di questa
profonda differenza si rende conto l’autore della Lettera, e così fa
dire ad un altro saggio che la legge è superiore al re, ottenendo il duplice
effetto di controbilanciare l’apparente preferenza per la concezione greca e
sottolineare la differenza fra le due culture, senza peraltro porle in
opposizione.
Nel
mondo pagano l’indipendenza e la forza della personalità costituiscono in
genere un valore assoluto, che prescinde dal ruolo sociale. In ogni caso, le
virtù del modello, sovrano o filosofo che sia, sono molteplici, come
numerose sono le divinità che spesso le ispirano o le rappresentano.
Al
contrario, per l’Ebreo esiste un riferimento unico: YHWH, il Dio
Creatore, autore della Vita e della Legge, a cui tutti devono essere sottomessi
con timore per poter nutrire speranza di salvezza. In passato, per il nostro
seminario, attingendo agli studi di von Rad e all’esegesi
rabbinica, abbiamo analizzato le cinque parole ebraiche che traducono “speranza”,
osservando che la prima di queste voleva dire anche fede. La ragione di
questo duplice valore proviene da YHWH, speranza assoluta, che si
caratterizza per la fedeltà indefettibile alla parola data all’uomo: tiene fede
al patto. La speranza è fondata nella fedeltà di Dio stesso. Il giusto è
colui che più si avvicina, con la sua costante rettitudine, alla coerenza
assoluta della virtù divina.
La
differenza fra le due culture è notevole, tuttavia sussiste un cruciale
elemento comune: l’éthos si costituisce in una
relazione. Nel Greco prevale il rapporto sociale con l’altro, mediato
dal ruolo, dai valori della polis e dalle leggi; nell’Ebreo prevale il
rapporto simbolico dell’individuo con Dio, attraverso la Legge. Il tratto
antropologico comune può essere così sintetizzato: il senso dell’éthos è nel rapporto e il suo valore
si esprime nella relazione.
Riprendendo
lo studio etimologico di Émile Benveniste, che ci ha
condotto alla radice indoeuropea originaria ⁎swe, notiamo che in greco il radicale può essere
specializzato anche dal semplice affisso -d, dando luogo ad un ambito
semantico ancora legato all’appartenere come sva-,
suus e swós,
ma inteso nel senso di proprio, particolare e personale come
nella forma riflessiva dell’appartenersi o “appartenere a sé stesso”: ídios. Colui che produce un senso non
condivisibile, che appartiene solo a sé stesso, è perciò detto idiota.
Benveniste nella sua disamina sulle parole
originate dalla radice ⁎swe
osserva che si possono ripartire in due gruppi concettuali: uno specifica l’appartenenza
ad un gruppo sociale, direttamente o attraverso una singola persona (cognato
di, consuocero di, ecc.), costituendo un legame di senso reciproco, per il
gruppo e per il singolo; l’altro definisce il sé quale individualità,
con valore intransitivo. E concludendo afferma: “L’interesse di questa nozione
è evidente, sia per la linguistica generale che per la filosofia. Qui si libera
la nozione di «sé», del riflessivo. È l’espressione di cui usa la
persona per definirsi come individuo e riferirsi a sé stesso”[10].
In
questa analisi linguistica, emerge all’attenzione focalizzata dal nostro
interesse la traccia di un’antica radice antropologica di senso: un polo
concettuale indifferenziato e latente, nel quale è compresa quella parte dell’identità
definita dall’appartenenza. Attraverso le parole, nate per esigenze comunicative,
questa parte di conoscenza implicita entra nella coscienza individuale e
collettiva, differenziandosi nei frammenti semantici di senso lessicale che
indicano il rapporto di ciascun soggetto con gli altri e con sé stesso, rivelando
la necessità di concepirsi all’interno di un sistema simbolico. Come è divenuto
chiaro grazie allo studio strutturalista dei rapporti elementari di parentela
da parte di Claude Levi-Strauss, l’ingresso alla nascita in un sistema di
legami definisce una base introiettata della struttura simbolica che
caratterizzerà il soggetto e la sua parola. In proposito si può notare che il
fondatore dello strutturalismo, Fernand De Saussurre,
definendo la parola quale esecuzione individuale della lingua, precisa:
che accomuna i parlanti. È intuitivo ma indispensabile: è necessario
condividere la lingua per capirsi, ma non basta: è altrettanto necessario che
il senso che si produce sia comunicabile, non semplicemente
trasmissibile. Se quanto si dice ha senso solo per l’esecutore, come abbiamo
visto, chi lo ascolta potrà ritenerlo idiota.
Su
questa trama strutturale di fondo si sviluppa la complessa, affascinate, spesso
dolorosa, qualche volta trionfale, sublime, mostruosa, insulsa, sorprendente, dura,
noiosa, luminosa, struggente, disperata, entusiasmante ma sempre precaria,
vicenda umana. Con tutto l’amore, l’odio, la generosità, l’indifferenza, la
cupidigia, l’eroismo, la vigliaccheria, la creatività, l’idolatria, la falsità,
l’arrivismo, la meschinità, la pietà, l’empatia, la nostalgia, l’aggressività,
la superbia, la costanza, la perseveranza, la saggezza, la prudenza, l’umiltà,
l’arroganza, la rassegnazione e la stoltezza di cui è capace la nostra specie.
Nella
realtà quotidiana, la trama dei rapporti nella quale si esprime e si misura
la nostra etica e nella quale si gioca l’attualità del senso
della nostra identità sociale è spesso molto diversa da un semplice
sistema di parentele acquisite intorno al nucleo dei consanguinei. Per la
maggior parte di noi, i rapporti di lavoro e vari altri tipi di relazioni
sociali costituiscono una dimensione prevalente, ma in ogni caso è evidente che
la forza significativa del legame non sempre corrisponde a quella affettiva
e che intensità dominate da avversione o ambivalenza possono dissolversi con la
rottura del rapporto, senza che ne risenta l’identità dei protagonisti.
Ma,
se è vero che l’analisi psicologica e psico-antropologica ci ha abituati a dare
rilievo alle realtà implicite di cui non si ha in genere consapevolezza, è pur
vero che l’agire deliberato su quanto è presente alla nostra coscienza dei
vincoli sociali costituisce una possibilità di assoluto rilievo. Accade spesso
che non ci si avvalga di questa facoltà perché non vi si pensa.
Si
tende, in molti casi, a focalizzare l’attenzione di riflesso su una particolare
interazione umana che ci disturba, ci lusinga, ci indispettisce, ci attrae, ci
delude o ci deprime; poi, a meno che non si entri in una dimensione di scambio
più personale, con l’esaurirsi dell’affettività reattiva si ha la scomparsa
dall’attualità della coscienza. Altre volte, il pensiero è mosso da un
desiderio o da un bisogno: tutti desiderano avere un buon amico, pochi si
preoccupano di esserlo per gli altri e, soprattutto, pochi dedicano tempo ad
analizzarsi e giudicarsi come soggetto attivo nella propria rete di relazioni
sociali.
Se
ci soffermiamo a riflettere, ci accorgiamo che il modo in cui concepiamo noi stessi
in rapporto agli altri non è questione di poco conto; contiene infatti la nostra
risposta alla domanda: cos’è l’amore? Ciascuno di noi può rispondere definendo
e descrivendo ciò che pensa in proposito, ma in fondo sa che ciò che conta è la
realtà del proprio agire nelle circostanze della vita.
Ma,
ritorniamo alle radici culturali che hanno dato forma per secoli a questo
sentimento.
La
cultura greca, secondo la tradizionale cristallizzazione di tropi concettuali in
astrazioni antropomorfe, aveva in Amore, secondo Fedro, la divinità più antica e
munifica, ma la filosofia e la letteratura testimoniano l’esistenza di una
pluralità di modelli.
Nel
dialogo socratico Il Convito, il celebre testo sull’amore di Platone, Pausania
distingue un amore materiale, figlio della Venere volgare, da un amore
spirituale portatore di sentimenti onesti e ammirevoli, figlio della Venere
celeste[11]. Erissimaco,
quale medico, sostiene la necessità di “serbare sano l’amore” e, a tale scopo,
favorire un sentimento onesto che mira al bene con sapienza e giustizia, così
da legarci tra noi e con gli dei. Celebre il discorso di Aristofane che, tra il
serioso e il burlesco come nelle trame delle sue commedie, narra il mito della
nostra origine da esseri doppi, per lo più androgini, poi divisi in due dal
taglio di Giove, che generò gli esseri umani quali si conoscono: incompiuti e
alla ricerca dell’altra metà per completarsi. Agatone sviluppa un discorso
celebrativo dell’Amore, che elogia nella personificazione del più bello, buono
e giovane degli dei, ricco di ogni virtù, privo di vizi e ispiratore dei poeti
e di tutti gli artisti.
Socrate,
rifiutando l’idea dell’elogio per mancanza di conoscenza, esercita la sua
consueta pratica maieutica interrogando Agatone. Con lo stringente incalzare
delle domande, ottiene dalle risposte la dimostrazione che Amore non è né bello
né buono, ma è un’espressione del desiderio di bellezza e bontà, di cui è privo.
Dal dialogo emergono proprio i principi che Socrate dichiara di aver ricevuto
dalla profetica Diotima di Mantinea:
l’amore è a metà strada tra l’umano e il divino, è filosofo e tende al possesso
perpetuo del bene, in cui consiste la felicità; è istinto fondamentale dell’uomo,
può portare a generare secondo il corpo o, come avviene in modo superiore negli
artisti, secondo l’anima.
Le
parole di Socrate delineano poi la concezione di Platone: Amore nasce da Abbondanza
e Povertà. L’invenzione platonica modifica lievemente un mito antico, radicato,
diffuso e condiviso nella cultura greca, che narra di Eros (Ἔρως)[12] quale figlio di Πόρος (Poros, l’Espediente)
e Πενία (Penίa,
la Povertà), così giustificando un sentimento generato dall’artificio seduttivo
e dal bisogno dell’altro, secondo una tradizione sicuramente vicina all’amore
materiale di Pausania. Nel dialogo, invece, Πόρος
è denominato con l’attributo di Abbondante ed è lui ad essere preso con l’inganno
da Penίa, che lo coglie addormentato per
l’ebbrezza al termine di un banchetto e va a giacere con lui per farsi ingravidare.
Questa trama, narrando di Eros quale figlio di due estremi come povertà e abbondanza,
lo colloca idealmente in un punto intermedio di equilibrio, secondo il canone
della misura, chiave di volta del pensiero platonico, così completandone
l’identificazione col filosofo stesso.
Abbiamo
fin qui, prima di introdurre l’argomento dell’amore, posto a confronto la visione
greca con quella ebraica, ma è la cultura cristiana che ha conferito, durante questi
duemila anni, un’impronta indelebile alla concezione etica dei rapporti umani,
al punto che molti aspetti della variegata realtà delle società multietniche e
multiculturali dei nostri giorni possono essere declinati secondo la dicotomia
della compatibilità o incompatibilità con i valori e con lo spirito della buona
novella annunciata dal Servo Sofferente di Jahvé.
Non
è difficile cogliere l’aspetto fondamentale che distingue il cristianesimo dall’ebraismo
nelle parole del Cristo riportate nei Vangeli: “Avete inteso che fu detto Amerai
il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri
nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro
celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa
piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti”[13]. Un precetto che mette in
condizione di operare il bene in ogni circostanza. E poi, in queste tre
citazioni tratte dal Vangelo di Giovanni, l’essenza stessa della missione terrena:
“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho
amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che
siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”[14]; “Come il Padre ha amato me, così
anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore”[15]; “Questo è il mio comandamento:
che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più
grande di questo: dare la vita per i propri amici”[16].
Un
insegnamento di una forza assoluta, che non lascia spazio alle interpretazioni
farisaiche. Come quando Gesù, rispondendo a un dottore della legge su quale
fosse il comandamento principale, dice: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto
il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente … E il secondo è
simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due
comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”[17].
Ma
un altro dottore della legge chiede a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”. In
risposta, il Maestro narra la parabola del buon Samaritano e, dopo aver detto
dell’uomo tramortito dai briganti, ignorato da un sacerdote e da un levita, e
soccorso da un uomo appartenente a un popolo nemico e malfidato quale quello
dei Samaritani, rovescia l’interrogativo chiedendo a sua volta: “Chi di questi
tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”[18].
Il
prossimo non più ristretto ai soli correligionari comporta un mutamento di
prospettiva: Jahvé, da “Dio del Popolo Eletto”,
diviene il Padre Nostro universale e i rapporti di responsabilità reciproca
sono potenzialmente estesi a tutti gli uomini della terra[19].
Un
ultimo confronto può essere fatto fra l’immagine veterotestamentaria prevalente
della potenza divina con quella evangelica. Nella tradizione ebraica del Levitico,
ad esempio, le minacce di Jahvé per la trasgressione
della legge, che si introducono con queste parole: “…manderò contro di voi il
terrore, la consunzione e la febbre, che vi faranno languire gli occhi e
consumare la vita”[20], poi proseguono per pagine intere,
ipotizzando recidive e ad ognuna reiterando: “Se nemmeno dopo questo mi
ascolterete io vi castigherò sette volte di più per i vostri peccati”[21].
Gesù
stesso testimonia che la maggiore espressione della potenza di Dio è nella
misericordia.
L’amore
quale essenza della fede è dunque la chiave per comprendere le scritture
e appartenere a Dio: il Nuovo Testamento non muta il Vecchio – e infatti il
Maestro spiega che non cadrà uno iota della Legge[22] – ma lo illumina, consentendo di
comprenderne la sostanza spirituale.
L’Amore
per il cristiano non è dunque filosofo, come per Socrate, ma si identifica con
la stessa natura divina e si esprime nel donare e nel donarsi spiritualmente.
Ma
oggi, dopo duemila anni di cristianesimo, fuori delle istituzioni clericali e
degli ambiti di pratica religiosa dei laici, cosa resta del senso cristiano
della parola amore?
Quante
volte si dà questo nome a una reazione affettiva o solo emotiva alla bellezza,
oppure alla razionalizzazione del desiderio erotico o a quell’insieme di
soddisfazione psichica e fisica che avvicina all’Io ideale e ci consente di
vivere in un sogno? Quante volte, senza troppo farci caso, chiamiamo amore i
rapporti sessuali o un innamoramento o, perfino, il nostro egoismo?
Non
è una questione di scarto tollerabile fra l’imprecisione lessicale del parlato
e la precisione potenziale del pensiero, perché in questa adesione,
apparentemente limitata alla forma comunicativa, si esercita una quotidiana pratica
di quel senso. Si ha un bel darsi da fare nell’affermare, spiegare e precisare
che non la si pensa in quel modo, ma intanto il permissivo ospitare nel proprio
discorso quel senso in principio lontano, attraverso parole migliaia di volte scambiate
con gli altri, come vecchie monete non bene osservate ma percepite solo quanto basta
a riconoscerle, crea una familiarità inconsapevole che, più spesso di quanto si
possa immaginare, genera un’appartenenza.
Quanti,
che aderiscono al credo cristiano di osservanza cattolica indicano abitualmente
con l’espressione “fare l’amore” dei rapporti sessuali praticati per puro piacere,
ossia un peccato? Eppure, nel loro vocabolario la parola amore dovrebbe
tradurre caritas, il dono, l’oblazione intesa nel
senso spirituale più alto, ossia un dare all’altro secondo il volere di Dio. Il
significato dell’amore è fondamentale nel cristianesimo, perché il Figlio di Dio
incarnato nella persona di Gesù Cristo abolisce i sacrifici degli Ebrei antichi,
sostituendoli con l’Amore, costituito dal dono di sé stesso, della sua vita,
quale sacrificio perfetto per la salvezza dell’umanità.
Nel
gergo del cristiano “fare l’amore” dovrebbe significare, se non sempre e proprio
imitare il Signore, almeno “fare la carità”, ossia compiere opere oblative, senza
delle quali, come dice San Paolo, si è “bronzo sonante”. Non occorre essere un
fedele fervente per cogliere in questa inversione di senso un paradosso
diabolico, ossia dividente, inteso nel senso etimologico di ciò che separa da
Dio.
Nei
non credenti la dipendenza dagli altri e dai valori del mondo per la propria
identità sociale sembra essere maggiore, soprattutto in chi vive un bisogno
psicologico di senso non soddisfatto ed è alla costante ricerca di qualcosa che
gli consenta di trovare stabilità se non proprio equilibrio. La vulnerabilità
alle frustrazioni cresce spesso in misura direttamente proporzionale al bisogno
di ottenere dagli altri conferme identitarie e nutrimento psichico. Emblematico
il caso di Jean-Paul Sartre: “L’inferno sono gli altri”, la celebre frase che
compare nella sua opera teatrale A porte chiuse. È vero che nei saggi di
fenomenologia ontologica vi costruisce su interessanti elaborazioni filosofiche,
ma la sua prima illustrazione di questa frase, con la descrizione di tutti gli
uomini che ci circondano come diavoli il cui forcone è lo sguardo, col quale ci
giudicano, ci spogliano delle certezze, mentono e ci fanno sentire nudi, è la
più immediata e sincera confessione dell’incapacità di amare.
Nell’orizzonte
cristiano il senso si attinge soprattutto dal rapporto spirituale col
Padre celeste: si ama il prossimo per amare Dio e si ama Dio per amare il prossimo,
ma la fede sostiene l’equilibrio psicologico attraverso le opere: si ha bisogno
degli altri per vivere il senso della vita, ma essere con gli altri
richiede un essere per gli altri, fare del prossimo un fine, come
voleva anche Immanuel Kant, mai un mezzo.
In
questi giorni, in cui viviamo la sospensione della vita sociale come misura
preventiva della diffusione del contagio da coronavirus, è facile sentire la
nostalgia della socialità attiva e comprendere nel timore di ammalarsi, nel
dolore indiretto o diretto per la perdita di persone care e nella consapevolezza
di una realtà pandemica, l’invisibile legame che accomuna l’umanità nella
precarietà del rischio e nella certezza della caducità mortale. L’assunzione di
responsabilità di coloro che stanno dando il proprio tempo, le proprie energie,
e purtroppo in molti casi anche la propria vita per cercare di salvare quella
degli altri, è la migliore testimonianza della presenza in mezzo a noi dell’amore
divino.
Gli autori
ringraziano la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invitano
alla lettura di scritti di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare
il motore interno nella pagina “CERCA”).
Monica Lanfredini
& Giuseppe Perrella
BM&L-28 marzo 2020
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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International
Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Detto “Isidoro di Siviglia”
impropriamente, perché non era Sivigliano: Sevilla era l’antico nome della
Spagna.
A volte
le ricostruzioni etimologiche, particolarmente in epoca romana, erano veri e
propri atti creativi: Aulo Gellio nelle Notti Attiche faceva risalire il
nome del mons Vaticanum
al latino “vagire”, ma – come ha fatto notare l’eminente storico delle lingue
Aniello Gentile – il nome, caratterizzato da una radice prelatina, nasceva in
epoca notevolmente più remota. Nell’errore di adottare l’etimologia di Aulo
Gellio incorse Jacques Lacan in Funzione e campo della parola e del
linguaggio in psicoanalisi, la sua celebre relazione al Congresso di Roma
del 1953.
[2] Le false etimologie costituiscono
in realtà un divertente ossimoro; infatti, il temine greco étymos,
da cui “etimologia”, vuol dire vero, certo, reale.
[3] Cfr. Émile Benveniste,
Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee (in
2 voll.). Einaudi, Torino 1969/1981.
[4] Émile Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. I, p. 253, Einaudi, Torino 1969.
[5] Émile Benveniste, op. cit., p. 254.
[6] Salvatore Natoli, La felicità
di questa vita – Esperienza del mondo e stagioni dell’esistenza, p. 35,
Mondadori, Milano 2001.
[7]
Lo scritto, che doveva intitolarsi
“Sull’interpretazione o traduzione della legge ebraica” (Eusebio, Praep. ev., IX, 38),
non ha forma epistolare ma si sviluppa a partire dall’artificio letterario di
un autore pagano di nome Aristea che narra al fratello Filocrate
come la legge ebraica fu tradotta in greco per il políteuma
ebraico di Alessandria, al tempo del faraone Tolomeo II Filadelfo (285-246 a.C.).
Il nostro riferimento principale per gli studi su questo documento è il saggio
seguente: Fausto Parente, Il giudaismo alessandrino, in Storia delle
Idee Economiche Politiche e Sociali diretta da Luigi Firpo (7 voll.), II
Volume: Ebraismo e Cristianesimo – Il Medioevo, pp. 289-345, UTET, Torino 1985.
[8]
Fausto Parente, op. cit., p.
308.
[9] Fausto Parente, ibidem.
[10] Émile Benveniste,
op. cit., p. 254.
[11] Dunque, l’antitesi di “amor sacro
e amor profano”, ispiratrice di tante opere d’arte, non nasce quale compromesso
in epoca cristiana, come capita a volte di leggere.
[12]
Eros, divinità che compare nella
mitologia post-omerica e ha una citata menzione nella Teogonia di
Esiodo, dalle tradizioni più antiche è considerato figlio del Caos, poi della
Notte e del Giorno; col crescere dell’interesse poetico per la sua natura di dio
dell’amore, è generalmente ritenuto figlio di Afrodite, ma il padre per
alcuni è Ares, per altri Hermes o lo stesso Zeus.
[13] Matteo 5, 43-45.
[14] Giovanni 13, 34-35. Galeno di
Pergamo, venuto in contatto con una comunità cristiana del II secolo, scrisse
della sua profonda ammirazione per costoro che realizzavano i comandamenti d’amore
nella vita quotidiana.
[15] Giovanni 15, 9.
[16] Giovanni 15, 12-13.
[17] Matteo 22, 37, 39-40. Sono
evidenziate in corsivo le citazioni da Deuteronomio 6, 5 e Levitico 19, 18.
[18] Luca 10, 36. L’incontro della
Samaritana al pozzo è una concreta testimonianza dell’universalità della
missione.
[19] l’Ebreo conosceva i rapporti di
responsabilità morale: paradigmatica la risposta a Dio dell’assassino Caino che
ha ucciso il fratello Abele che aveva in custodia per nascita: “Sono forse il
guardiano di mio fratello?”. Chi rompe il legame di responsabilità è colui che
non ama, ed è potenzialmente assassino. Per il cristiano siamo tutti fratelli.
[20] Levitico 26, 16.
[21] Levitico 26, 18 e segg.
[22] Si ricorda che la Torah ebraica
corrisponde al Pentateuco e che anche per buona parte dei libri profetici c’è
una sostanziale identità con la Bibbia cristiana.